di Simonetta Sandri
Il Sahara è Dio senza gli
uomini, H. de Balzac
Chi di noi non ricorda il
“Piccolo Principe” di Saint-Exupéry e il suo piccolo aereo
precipitato nel deserto? Chi di noi non ha avuto voglia, almeno una
volta nella sua vita, di ripercorrere quelle magnifiche avventure?
Tanti di noi hanno attraversato il deserto, e non solo con la
fantasia… Avventuriamoci allora insieme in questo deserto, passiamo
per il Sahara, per riscoprire noi stessi oltre a parte delle nostre
radici. Per riscoprire la vita. Strano ma vero, vedrete…
Ghibli
Vi domanderete come sono
arrivata all’idea di portarvi con me alla ricerca degli “italiani
del deserto” che non sono pochi, credetemi. È una bella scoperta.
Qualche anno fa mi trovavo a
Tripoli, in tempi migliori e tranquilli, con uno sguardo perso e
avido, conquistato e diviso fra la bellezza del litorale mediterraneo
e i colori e odori della Medina. Soffiava il Ghibli, il vento caldo
del sud, proveniente dal deserto e la sabbia arrivava ovunque,
immancabilmente e ostinatamente. Entrava di soppiatto sotto le
fessure delle finestre dell’albergo, che fischiavano clamorosamente
e rumorosamente per tutta la notte, quasi fossero disturbate,
penetrava nelle scarpe, si infilava sotto i vestiti e fra le pieghe
delle gonne, sgattaiolava fra le maglie delle mie leggere calze. Mi
ritrovavo quella sabbia rossa anche in bocca, masticavo granelli
piccoli piccoli, le mie lenti a contatto soffrivano terribilmente.
Non ero ancora andata nel deserto, che mi ha sempre attirato per la
sua dimensione d’immensità e di eternità, ma mi pareva di
esserci. E c’ero, con l’immaginazione che galoppava, c’ero con
i sensi e con il cuore. Con la voglia di scoprire un mondo unico,
magico, misterioso e avvolgente. Stranissima sensazione quella
sabbia, una sensazione che si ripeteva ogni giorno, passeggiando per
il centro della città ove bazar colorati, vocianti e allegri
attiravano l’attenzione dei nuovi turisti.
La Piazza Verde, oggi Piazza
della Rivoluzione, mi riportava immediatamente al passato coloniale
italiano, quella Piazza con la sua libreria italiana; lo stesso
dicasi per la pasticceria libica vicino all’antica Cattedrale ora
trasformata in moschea, ove un anziano signore mi raccontava di
essere nato all’epoca degli italiani. Una simpatica guida
libico-italiana mi introduceva alla vita e alla storia della moschea,
dove mi sono silenziosamente introdotta insieme a un collega. Le
tracce del passato italiano erano ovunque, anche nelle pavimentazioni
stradali, con curiosi tombini di memoria mussoliniana. Nessuna
compiacenza in questo, solo un pezzo di storia. Siate rassicurati.
Nella Medina compravo per mia madre quattro bicchieri di vetro
colorato per il tè da un simpatico e disponibile negoziante libico
dall’italiano quasi perfetto.
Medna di Tripoli |
Medina di Tripoli |
Medina di Tripoli dall'alto |
Le anfore in vendita – copie
o reperti di dubbia provenienza? – ricordavano il passaggio nella
regione degli antichi romani e l’impronta da essi lasciata un po’
ovunque. Avrei voluto incontrare e parlare con tante persone,
preparare piccole interviste con tante fotografie particolari,
dettagliate e variopinte ma mi mancava il tempo. Ero a Tripoli per
lavoro e non potevo andare oltre, potevo solo registrare le mie
impressioni e sensazioni con la ferma volontà di trasmetterle una
volta di rientro a Milano. Passeggiando per il lungomare con un
collega, discutendo di tantissime cose e condividendo con lui molte
sensazioni, mi ricordavo anche di aver intravisto sugli scaffali di
una vetrina di una libreria milanese un libro intitolato “Ghibli”.
Tornata a casa l’avrei acquistato, letto-divorato e condiviso con
amici: ve lo consiglio, l’autrice è Luciana Capretti. Descrive la
cacciata degli italiani dalla Libia nel 1970, dopo l’avvento di
Gheddafi nel settembre 1969. È triste nella descrizione del giorno
in cui molti connazionali lasciano Tripoli al soffiare del Ghibli
(l’esilio è sempre triste, per chiunque, soprattutto quando si
lascia una terra che si ama e dove si è vissuto a lungo, magari
anche nati…) ma va letto per comprendere come anche noi,
accompagnati da quello stesso vento, apparteniamo a quella parte di
storia. Indipendentemente dai giudizi, abbiamo un legame con quella
terra, allora come ora. Siamo popoli del Mediterraneo, due sponde non
tanto lontane unite da un grande mare. Ritorniamo quindi su alcune
tracce del nostro passato…comune denominatore: il deserto. E il suo
fascino.
Dagli antichi romani agli
esploratori ottocenteschi
Solo poche significative
parole per ricordare la Libia parte della nostra storia più lontana,
quella portatrice di novità, comprensione e integrazione: Leptis
Magna, le “navi del deserto”, lo “scatolone di sabbia” e la
“litania delle dune”. Leptis Magna e le “navi del deserto” ci
riportano alle memorie dell’antica Roma.
Leptis Magna, anfiteatro |
Settimio Severo, busto |
Leptis Magna, arco Settimio Severo |
Durante il dominio romano
Leptis, acquisito l’appellativo di “Magna”, divenne ben presto
una delle principali città romane d’Africa grazie al fiorente
commercio marittimo di spezie, oro e animali provenienti dall’Africa
subsahariana. Con oltre 100.000 abitanti, la città raggiunse il suo
apogeo nel 193 a.C. quando Settimio Severo, nativo leptitano, divenne
imperatore. Negli anni successivi Settimio Severo fu un munifico
propulsore dell’abbellimento della propria città natale, che in
quanto a sfarzo giunse a rivaleggiare con Cartagine e Alessandria.
Nel 205 Settimio Severo visitò la città, che gli tributò grandi
onori. Distrutta Cartagine, i Romani si interessarono maggiormente ai
traffici del e dal deserto tanto da inviarvi due spedizioni: una nel
19 a.C. guidata da Cornelio Balbo e un’altra sotto Domiziano,
condotta da Giulio Materno, che, varcando il Sahara, si era spinta
fino al fiume Niger. E sono i Romani ad apportare un’innovazione
che farà del Sahara il ponte commerciale fra Mediterraneo e Sudan:
l’introduzione del dromedario, o la “nave del deserto”, portato
dall’Asia. Passano i secoli e le prime notizie di italiani che si
avventurano in queste zone risalgono al 1300, notizie rimaste per
secoli sepolte negli archivi. Proprio quell’anno, un anonimo
trafficante genovese arriva a Sigilmassa, sulla soglia marocchina del
Sahara, ed è il primo a parlare dei Tuareg, gli “uomini blu” del
deserto. Da questi uomini velati resta profondamente impressionato
anche un altro genovese, Antonio Malfante, che, nel 1447, visita il
Tuat. Con le navigazioni portoghesi lungo la costa africana e la
scoperta delle Americhe l’attenzione si sposta altrove: il Sahara
dovrà aspettare l’inizio dell’Ottocento per veder approdare
sulle sue sabbie vellutate i primi curiosi esploratori.
“Lo scatolone di sabbia”
Con l’occupazione della
Libia, chiamata lo “scatolone di sabbia”, anche l’Italia inizia
a percorrere il Sahara, in lungo e in largo, con spedizioni
scientifiche alla ricerca di ricchezze minerarie. Fra i protagonisti
di queste spedizioni vi è il geologo Ardito Desio che raccoglie le
sue esperienze del deserto in “Le vie della sete. Esplorazioni
sahariane” (1950).
Abbiamo percorso alcune pagine
di queste avventure scritte, chissà, dall’alto di una duna o sotto
una piccola tenda piantata profondamente nella sabbia (ci piace
immaginare così…). Vi abbiamo ritrovato le vicissitudini di una
strana e divertente carovana su cui una mummia, sottratta al sonno
eterno, pare esercitare la sua aspra vendetta. E’ il viaggio di
un’autocolonna partita da Porto Bardia e diretta a Giarabub,
guidata da un giovane ufficiale. Al gruppo si unisce un archeologo,
deciso a trasportare a Benghasi una mummia proveniente dalle tombe
scoperte a Melfa. La superstizione fa pensare che quella mummia
voglia vendicarsi per essere stata sottratta al meritato riposo. E
allora, alla carovana, succede di tutto: chi si sloga un piede
caricando la mummia, chi soffre di perenni disturbi intestinali, chi
si sveglia nel cuore della notte per le improvvise raffiche di vento,
l’arrivo improvviso e sconvolgente delle tempeste di sabbia,
l’archeologo rimasto quasi soffocato sotto la tenda con i piedi
nudi imbrattati d’inchiostro (nella mischia notturna dovuta alla
sabbia, un calamaio si era rovesciato…), l’improvviso e
devastante acquazzone. Tutti convinti dell’influenza malefica della
mummia: ma il racconto è comunque divertente. E qui sembra di
riconoscere una potente dimensione soprannaturale che, credetemi, si
percepisce quando ci si ritrova, nudi, davanti al deserto: altro che
luogo “desertus” (nel senso di “abbandonato”…), immense
forze della natura, animali e anime abitano questo luogo incredibile,
in un profondo, rispettoso e timoroso silenzio.
La “litania delle dune”,
culla dei sogni
E allora eccoci fra le dune,
insieme all’avventuroso e curioso giornalista Paolo Zappa che, nel
1932, viaggia per il Sahara. Proprio lui ci descrive la vita del
deserto, le pernici delle sabbie (le kanga), esili e di colore
rossastro, che, al passaggio delle carovane, si levano in stormi per
posarsi sulle groppe dei cammelli per poi scapparsene rapidamente. I
fuochi per il tè, le tende, i datteri secchi che incollano i denti
come mastice, l’acqua salmastra, i cammelli che corrono inseguiti
solo da ombre. C’è vita, vita di uomini ed animali che avanzano a
stento, ma c’è. E poi le dune e i mauri della carovana che
salmodiano la “litania delle dune” …
“Dune, grandi dune
ondulate come l’acqua del mare, / Dune dalla fronte calva, / Dune,
che il vento lavora e tormenta senza tregua, / Dune, che una goccia
d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni, / Dune, che vedete
passare le carovane, / Dune melodiose, che cantate al levare del
sole, / Dune dal burnus d’oro e dal burnus di neve, / Dune, dai
fianchi sollevati come quelli di una donna prossima a partorire, /
Dune, nostro sudario quando il simum soffia e ci travolge, / Dune,
grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada, / E fate che
arriviamo alla meta”.
Allora, dove si intravvede
comunque la vita, è difficile condividere l’etimologia di
“desertus”… Una vita che, come ci insegna il naturalista del
deserto Giuseppe Scortecci, nel 1939, esiste, laddove si avverte
l’arrivo del vento del sud dall’inquietudine degli animali:
cammelli che muggiscono, uccelli che trillano, stridono, cantano e
gorgheggiano, insetti diurni che scompaiono, stormi di farfallette,
di formiche e coleotteri che accorrono alla luce delle lampade. Le
foglie di palma frusciano e si piegano, l’aria diventa color ocra e
caldissima, il vento aumenta di violenza. La natura si scatena e si
fa sentire. “Immersi nella caligine turbinante si ha l’impressione
di essere isolati, lontani dal mondo, divenuti preda di
un’incorporea, maligna, invisibile, onnipossente deità che voglia
torturarci”. Vita che avverte e richiama vita. E la sabbia appare
ovunque, meravigliosa trasmettitrice di suoni.
I Tuareg, uomini blu e
fiabe
Dio ha creato paesi ricchi
d’acqua perché gli uomini vi vivano, i deserti perché vi
ritrovino la propria anima (proverbio targhi*)
* targhi = dei tuareg
Tuareg |
Te' nel deserto |
Fra questa vita ed energia
quasi nascosta, spuntano lontano anche “anime” del deserto, anime
nel senso di essenza profondamente legata e radicata alla sabbia ed
alle sue morbide ma impervie dune. Sono gli uomini misteriosi del
deserto, i Tuareg che tanto affascinano l’immaginazione collettiva,
un popolo meravigliosamente ricco di storie e tradizioni. Chi non ne
ha sentito parlare almeno una volta?
E’ nel 1928, esercitando la
sua professione di medico nelle oasi sahariane della Libia abitate
dai Tuareg, che un medico italiano guadagna stima e confidenza di
tale popolo diffidente. Alberto Denti di Pirajino impara a conoscerne
usanze e tradizioni, ad apprendere storie e vicende degne del più
fantasioso ed avvincente romanzo.
Scorrendo il suo libro “Un
medico in Africa” apprendiamo molte cose su questa “famiglia del
velo” unica al mondo. La suddivisione in tribù nobili e tribù
vassalle e la supremazia delle donne nella società targhia, un
primato incredibile della funzione della donna, al punto che tutta la
collettività gravita intorno alla sua femminilità come strumento
d’amore. A questo si affiancano dolcissime fiabe tuareg, fonte di
serenità e di comunione segreta con la natura. Le leggende degli
uomini del deserto, degli uomini liberi, sono tante. Ve ne ricordo
una per tutte, quella che amo di più: la fiaba della “gazzella
dalle corna di smeraldo”. Un ragazzino di 12 anni racconta il
viaggio, con la sua famiglia, verso il Sudan, attraverso il Teneré.
Durante la traversata, il gruppo si imbatte in un branco di gazzelle,
preda ambita dagli abitanti del deserto: ne vengono uccise dieci.
Accortosi della presenza di una ghazla, una femmina che stava per
avere i piccoli, il giovane chiede al padre di risparmiarla. Il
magnanimo genitore acconsente. Durante la notte due puntini verde
chiaro avvolti da un’aureola luminosa svegliano il ragazzino: il
cerchio formato da un fumo blu che si dipana da quei puntini lascia
passare una gazzella graziosa e leggera dalle corna color smeraldo.
L’animale si rivolge al giovane e parla con lui, che senza alcun
stupore ne ascolta la voce melodiosa: lo avverte dell’imminente
tragedia che sta per imbattersi sulla carovana, sete e fame, e che,
nonostante le difficoltà dovrà spronare il gruppo a continuare il
cammino. Perché il Teneré non è completamente privo di acqua…
Allo stesso tempo, batte su una pietra le corna di smeraldo e ne
lascia cadere un pezzetto, indicando allo stupito interlocutore di
raccoglierlo: il frammento sarà il suo potente talismano, che gli
impedirà di morire di sete. Il giorno seguente le riserve d’acqua
finiscono improvvisamente, ma la marcia continua fra preghiere ed
ansie. La pietra caduta dal sogno nelle tasche del giovane indicherà
poi, in una notte del deserto illuminata solo dalle stelle, il luogo
da cui si udirà un leggero ed inaspettato gorgoglio proveniente
dalle viscere della terra: una sorgente d’acqua. Tutti i bambini
del mondo dovrebbero conoscere queste fiabe… o almeno qualcuna di
esse.
Per saperne di piu’ …
Ardito Desio
Nato a Palmanova nel 1897, è
fin da giovane un abile e conosciuto geologo e scalatore. Fra il 1926
e il 1940 è più volte nel Sahara libico alla ricerca di minerali.
Dal 1937, sempre per ricerche geologiche, si trova in Etiopia e nel
1940 in Albania, Grecia, Turchia, Libano, Siria, India e Pakistan.
Alberto Denti di Pirajino
Nasce nel 1886, da antica
famiglia nobile siciliana, a La Spezia. Laureatosi in medicina a
Firenze, parte per l’Africa nel 1924, come medico personale del
duca d’Aosta, per passare nell’amministrazione coloniale fino al
1943 quando, in qualità di Governatore di Tripoli, deve consegnare
la città al vittorioso maresciallo Montgomery. Dopo tre anni di
prigionia rientra in patria nel 1946. Muore a Roma nel 1968. Fra le
sue opere: “Ippolita” e “Un medico in Africa”.
Da vedere…
Marrakech Express,
di Gabriele Salvatores
(1989), Il tè nel deserto,
di Bernardo Bertolucci (1990)
Fotografie di Simonetta Sandri
Copyright by Simonetta Sandri
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