Sotto il segno di Dante,
Totti e Depardieu
di William Molducci
Poeta, insegnante di metrica,
enigmista, attore, fine dicitore: Franco Costantini sembra avere una
vocazione naturale all’eclettismo e alla “contaminazione”.
Costantini, versatile protagonista della scena artistica, ha tenuto
numerosi recital sui palchi italiani, insieme a musicisti, attori e
poeti, proponendo i capolavori di Dante, Montale, Leopardi, Dino
Campana. Nei suoi recital spesso la poesia incontra la musica, senza
trascurare il suo talento di attore, come nel cortometraggio
“L’annusatore” di Gianfranco Tondini, nello sceneggiato “Fine
Secolo”, di Gianni Lepre, trasmesso su RAI 1, e nel musical
“L’ultima notte di Scolacium”, diretto da Cristina Muti, dove
sostituì Gerard Depardieu.
Nel 2013 ha pubblicato il
poema epico “Totteide”, in 1800 endecasillabi, il primo dedicato
a un uomo di sport, in questo caso al capitano della Roma calcio,
visto come un moderno eroe dello sport.
Quest’anno ha inaugurato la
“stagione dantesca” di Ravenna Festival interpretando “Cantica
Dantesca”. Per una settimana, ai Chiostri Francescani, ha recitato
i versi dell’Alighieri accompagnato da musicisti.
Franco Costantini e Raimondo Raimoni nel video di presentazione di "Totteide" |
Sei nato a Roma e vivi a
Ravenna, ha origine da questo percorso il tuo “Totteide”, il
poema epico in 1800 endecasillabi dedicato alle gesta di Francesco
Totti?
Certo. Totti è simbolo di
“amor patrio e fedeltà”. E cantando lui ho anche testimoniato il
mio modo di essere “fedele a distanza”: la vita mi ha portato
lontano da Roma, ma niente potrà strapparmi dal cuore l’amore per
le mie radici. Insomma: fatte le debite proporzioni, credo che la
“pulsione prima” del mio poema sia la stessa che spinse Quinto
Orazio Flacco a scrivere il suo Carmen Saeculare. “Carmen” che -
tra l’altro - mi sono permesso di parafrasare. Con ironia, ma anche
con grande affetto: “O almo Sole, che con raggio biondo /
l’oscurità disperdi de le notti, / tu non vedrai nessuna cosa al
mondo / maggior di Roma o di Francesco Totti”.
Con Dante’s Corner sei
diventato un juke box dantesco, i passanti ti chiedevano di recitare
un canto e tu… mentre al caffè letterario Le Giubbe Rosse di
Firenze…
Due esperienze fantastiche. In
Dante’s Corner mi è piaciuto soprattutto il ribaltamento del
rapporto palco-platea: il pubblico, infatti, non aveva il solito
ruolo, ricettivo-passivo; ma diventava “regista”, decidendo cosa
ascoltare. Devo tuttavia confessare una cosa: non rifarò mai più
Dante’s Corner così come lo feci tutti i giorni di quel luglio
2013, almeno 4 ore al giorno, per un totale di 156 ore di
performance. È stato massacrante. Non tanto a livello fisico: parlo
di “stanchezza emotiva”, perché nel recitare Dante ci metto
l’anima! A fine luglio, ero uno straccio. Alle Giubbe Rosse di
Firenze, nel 2015, premiarono me e il chitarrista Raimondo Raimondi,
mio partner di scena in mille occasioni, con il premio gemello “La
poesia nelle corde”. Recitare Dante in quel contesto è stato
davvero gratificante. Lì sono passati tutti i grandi poeti del
Novecento: da Campana a Pasolini, da Saba a Pratolini, da Quasimodo a
Montale. Lì Marinetti e i futuristi si accapigliarono con i
letterati fiorentini nella rissa culturale più famosa del mondo! Uh,
dimenticavo Gadda; ed Ezra Pound, e Dylan Thomas…
Insomma, quello non è un
caffè, è un “tempio della letteratura”; e io ci sono entrato da
“sacerdote”, capisci? È stata una delle mie soddisfazioni
artistiche più grandi. E ancora oggi mi vanto con gli amici che su
Wikipedia, alla voce “Caffè Le Giubbe Rosse”, è citato anche il
mio nome e quello dell’amico Raimondo!
Franco Costantini vestito da Dante al Caffè
Alighieri
|
Le tue letture dantesche
collegano spesso due città storicamente rivali quali Ravenna e
Firenze, che differenti reazioni noti tra il pubblico romagnolo e
quello toscano?
Nessuna differenza. Tutti
coloro che vengono ad ascoltare Dante lo fanno con identico amore e
rispetto: ad ogni latitudine e longitudine. Addirittura, durante
Dante’s Corner, si sono fermati a sentirmi turisti giapponesi,
americani, russi: non capivano una parola, ma la loro concentrazione
e il loro “abbandono all’ascolto” erano gli stessi del pubblico
italiano. Il merito non è mio, sia chiaro: il segreto sta nella
magia dell’endecasillabo, nella sua musicalità; una musicalità
che può persino fare a meno della piena comprensione dei contenuti.
C'è un canto della Divina
Commedia a cui sei particolarmente legato?
Forse il 26esimo dell’Inferno,
in cui Ulisse, pur “dannato”, ci regala un epifonema che suona
come un undicesimo “comandamento”: “Fatti non foste a viver
come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”. Ma adoro anche
il 21esimo del Paradiso, in cui San Pier Damiani sa conciliare la
spiritualità della propria beatitudo
con la “carnalità” dell’invettiva contro la chiesa corrotta.
Franco Costantini |
Da Dante a Montale ci sono
più di sei secoli di distanza, eppure la poesia unisce tempi e
uomini, quasi come un viaggio del tempo…
Sì. La letteratura - lo
diceva Eco, se ben rammento - garantisce una sorta di “immortalità
all’indietro”. Io ero con Leopardi che contemplava la ginestra
sulle pendici del Vesuvio, ero con Catullo che implorava la sua
Lesbia, ero con Ettore mentre difendeva le porte Scee… Sì, la
forza della poesia mi rende antico di millenni, ed “esteso”
quanto l’intero pianeta!
Ti esibisci spesso con
poeti e musicisti, il significato semantico si lega al suono musicale
delle parole?
Sono convinto che la lingua -
ogni lingua - si sia sviluppata da un nucleo di suoni onomatopeici.
Sì, i suoni tendono a corrispondere alle cose. Musica
e poesia, inoltre, sono nate insieme. E per un lunghissimo tempo (*)
sono state inseparabili.
Gli antichi aedi, ad esempio, non recitavano i poemi: li cantavano.
Franco Costantini mentre recita un apocrifo dantesco al teatro Alighieri di Ravenna |
Quest’anno hai inaugurato
la stagione dantesca di Ravenna Festival declamando “Cantica
Dantesca” accompagnato da Elena Sartori, Sara Bino, Elena Biscuola,
Elisa Bonazzi e Anna Pia Capurso (Melodi Cantores)…
In “Cantica dantesca” si è
esplorato il rapporto tra i versi di Dante e alcune canzoni sacre
medioevali. Il tema era quello della donna come guida spirituale,
chiave del passaggio dall’amore terreno all’amore divino. Proprio
sul tema dell’amore, un “matrimonio” tra note e poesia si era
celebrato già sette secoli fa, quando Casella musicò alcuni versi
del Vate (“Amor che nella mente mi ragiona”).
Portare la poesia nelle
case per anziani è un po’ ricondurli alla vita…
Forse è più vero l’esatto
contrario. Quando recito per gli anziani, questi mi fanno sentire
“utile” in un modo speciale, e dunque mi colmano di slanci
vitali. Sì, sono loro che riconducono me alla vita.
Nel 2009 hai recitato con
Nancy Brilli e Valerio Massimo Manfredi nella versione teatrale del
racconto “Il sogno di Ottavia”, appendice del libro “Marcello”
(dello stesso Manfredi)…
Sì. L’evento si tenne al
Museo Nazionale di Roma, e fu una splendida occasione di
riabbracciare la mia città. Con Manfredi ho un rapporto speciale:
adoro i suoi romanzi, capaci di fondere armoniosamente (e
semplicemente) la fantasia narrativa con il rigore storico. Assieme a
Manfredi feci anche uno spettacolo bellissimo sull’Odissea, che
abbiamo portato in giro in varie città italiane: lui parlava a ruota
libera della storia di Ulisse, in tutte le sue implicazioni storiche,
mitologiche e simboliche; e io davo voce ai versi di Omero.
Sei l’autore di
“Thaleroneide”, il primo poema epico ambientato in un mondo
virtuale di Internet?
Sono orgoglioso di questo
poema, anche se destinato a una nicchia, cioè ai “giocatori di
ruolo” di quel mondo fantasy (“Isylea”, un universo
para-tolkieniano popolato di elfi, maghi, draghi). Può sembrare
strana, l’idea di un epos ambientato in una non-realtà: ma, se ci
pensi bene, il fantasy ha SEMPRE caratterizzato l’epica, da Omero
fino ad Ariosto. Il ciclope Polifemo e la maga Alcina - per dirne due
- non sono certo personaggi storici!
Nel 2014 hai sostituito
Gerard Depardieu nel ruolo del conte normanno Ruggero d’Altavilla,
nel musical diretto da Cristina Muti, con musiche di Nicola Piovani:
“L’ultima notte di Scolacium”…
A Catanzaro. Un ricordo
bellissimo. Fu Cristina Muti a volermi a tutti i costi, contro le
perplessità dei produttori. In tutta franchezza, quelle perplessità
avevano ragion d’essere: come si fa a sostituire un divo famoso con
un dicitore quasi sconosciuto, quand’anche dotato? A quel punto
però, non mi restava che accettare la sfida, anche per onorare il
coraggio di Cristina. Così mi calai nei panni di quel prode normanno
che attorno all’anno 1060 conquistò la Calabria… col preciso
obiettivo di conquistarla di nuovo! Per mia fortuna fu un successo. E
fu anche l’occasione di fare amicizia con artisti eccezionali: come
Edoardo Siravo, Rosa Feola, i fratelli Mancuso…
Hai interpretato Vittorio,
il protagonista narratore nell’opera lirica “Il viaggio di
Roberto” (un treno verso Auschwitz), per la regia di Alessio
Pizzech. Un’esperienza artistica e umana?
L’hai detto. Alcuni filosofi
greci sostenevano che la felicità consistesse nell’assenza di
dolore, altri che fosse la FINE del dolore. Io ho sperimentato un
“ossimoro reale” sulla mia pelle: ho sperimentato la felicità di
condividere un dolore. “Il viaggio di Roberto” è stato anche un
viaggio dentro noi stessi, un viaggio sofferto ma bellissimo. Da
allora mi sento più ricco "dentro”, più consapevole, più
degno di vivere la vicenda umana. Grazie anche a tutti gli altri
compagni di avventura: a partire dalla fantastica Cinzia Damassa fino
ai cantanti, agli orchestrali, alle comparse, ai bambini del coro.
* Non possiamo sapere con precisione quando è nata la poesia.
Sicuramente è nata dai racconti di caccia e di guerra degli ominidi
primitivi, decine di migliaia di anni fa. La scrittura ancora non
c’era, e il ritmo, la melodia, le rime e le assonanze (tutti
elementi che formalmente caratterizzano la poesia) garantivano a quei
racconti (il germe dell’epos) di essere ricordati e tramandati
oralmente. Dunque la poesia è legata al canto e alla musica fin
dalla nascita. Volendo ipotizzare una datazione, potremmo dedurre -
dagli studi archeologici - che 30mila anni fa, presso l’uomo di
Cro-Magnon, la poesia già esisteva. Così come già esistevano
diversi strumenti musicali; non solo percussivi, ma anche a fiato:
nelle tombe dell’uomo di Cro-Magnon sono stati infatti rinvenuti
flauti rituali ricavati dalle ossa dei morti. Canto e poesia hanno
cominciato a separarsi solo molto tempo dopo l’invenzione della
scrittura; forse nel primo millennio avanti Cristo. Pertanto possiamo
concludere, senza azzardo, che poesia e canto sono stati
indissolubilmente uniti per almeno 27mila anni.
Copyright by William Molducci
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