giovedì 14 novembre 2013

Robert Capa in Italia, 1943-1944

Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi, 3 ottobre 2013-6 gennaio 2014

di Simonetta Sandri



Se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino.

Quando mi sono avvicinata al monumentale Palazzo Braschi, un tardo pomeriggio d’inizio novembre, di Robert Capa sapevo solo che era stato, insieme all’indimenticabile Henri Cartier- Bresson, uno dei fondatori della grande e notoria agenzia Magnum Photos intorno alla fine degli anni 40, a Parigi. Avrei scoperto solo più tardi che la data precisa era il 1947 e che, quest'anno, il 2014, ricorreva l'anniversario dei 50 anni dalla morte di quello che, senza alcun dubbio, può essere considerato il padre del fotogiornalismo.
Capa era nato in Ungheria, nel 1913, da una famiglia borghese ebraica, con il nome di Endre Ernö Friedmann e, trasferitosi a Parigi, qui aveva assunto lo pseudonimo, con il quale sarebbe divenuto famoso, di un fotografo americano da lui stesso inventato per acquisire credibilità presso i giornali, quello di Robert Capa appunto. Andre', come si faceva inizialmente chiamare, alla francese, e Gerda Phorylle, profuga ebrea tedesca che divenne la sua compagna, inventano Capa, ispirandosi al registra Frank Capra per il cognome, e a Robert Taylor per il nome, il grande attore amante di Greta Garbo in Camille del 1936. E' molto romantico leggere come Gerda girasse per le redazioni delle riviste proponendo le foto di questo genio americano inventato e di come a poco a poco il successo fosse arrivato, un impegno da parte di quel grande amore che si sarebbe perso intrappolato sotto un carro armato repubblicano nella Madrid del luglio del 1937. Capa, che voleva sposare quella donna meravigliosa e profondamente innamorata, non si sarebbe più ripreso da questa terribile disgrazia. E avrebbe iniziato a vagare, così immaginiamo, con la sua macchina fotografica, in scenari lontani, complessi e di sofferenza. Un po' perso per la devastante tristezza, ma sicuro della sua volontà di testimoniare il mondo in guerra.
In quasi quarant'anni di vita, questo incredibile artista della fotografia e della storia avrebbe scattato oltre settantamila foto in bianco e nero, percorrendo e attraversando in prima persona, a suo rischio e pericolo (morirà, infatti, in Indocina, l'attuale Vietnam), ben cinque conflitti mondiali: la guerra civile spagnola (1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che segue nel 1938), la seconda guerra mondiale vista dallo scenario europeo (1941-1945), la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina (1954). Guerra nelle guerre.
A Roma siamo rimasti colpiti dalla forza delle immagini, incollati agli sguardi delle persone ritratte, toccati dall'empatia con esse, sfiorati dal coraggio, dall'integrità di un grande artista partecipe di tante sofferenze e scene di esistenza vera e (con)vissuta. Questo fotografo capiva profondamente la vita, la percorreva, la trasudava, la scolpiva, la disegnava, la immortalava nei suoi attimi più duri e sofferenti, la spogliava, la smembrava. Le immagini scorrono, a Roma.

Ogni episodio immortalato si presenta nella sua unicità, ogni abbraccio nella sua disperazione, ogni mano aperta nella sua speranza, ogni volto nella sua voglia di sopravvivere. Rimaniamo colpiti nel vedere il ritratto di noi stessi e della nostra storia. Questa mostra andrebbe visitata da ogni italiano, percorsa con attenzione soprattutto da quei giovani che non conoscono la storia di un paese uscito da una guerra così devastante. Rimane incredibile, ai nostri occhi, osservare in che stato eravamo solamente 60 anni fa, una distanza che è un nulla nella storia di una nazione, vedere nelle foto quello che i nostri nonni e i nostri genitori allora bambini ci avevano raccontato o almeno avevano cercato di raccontare nei pomeriggi invernali dove, annoiati, sbadigliavamo e cambiavamo canale della memoria.
Tutti dovremmo passare da qui, da questa mostra particolare, per ricordare, per capire da dove veniamo, con che cosa abbiamo combattuto, come eravamo distrutti e come da questa distruzione i nostri genitori siano rinati con le loro sole forze.

Noi che oggi viviamo spesso nella superficialità e nel benessere dovremo tramandare quei sacrifici e quella memoria, vedendone e toccandone i fatti. Cammino per le sale spaziose e ben illuminate e nelle immagini rivedo i volti di alcune fotografie di nonna, dal nome di speranza, Vita, la mia nonna dai capelli grigi attraversati solo da una scia ondulata bianca candida.
Attraverso, sola con i miei pensieri, Troina, Monreale, Napoli, Anzio, Cassino. Vedo agricoltori dal volto segnato, campi smembrati e divelti, bambini arruffati, truppe zoppicanti, macerie fumanti, soldati stanchi, fagotti bianchi. Passiamo dalla disperazione all'esultanza.

In alcune immagini - penso, in particolare, alla foto di una coppia, che, dopo la liberazione, passeggia a braccetto per le strade di Cefalù - rivedo le vecchie foto di famiglia, mi ricordo vagamente di zie, prozie e bisnonne. Salto nella storia, nella mia storia familiare e personale, nel mio passato che ritrovo a sorridermi per essere stato risvegliato, riscoperto e rispolverato.
Sono testimone da lontano, ora, mentre Capa lo era sul campo, allora, ma questo immenso personaggio che ha raccontato la faccia terribile della guerra ha anche il merito di averle dato sembianze umane, di farci oggi riflettere, "leggermente fuori fuoco", al vero volto dei conflitti, di scorgere anche la tenerezza nelle rughe di un vecchio agricoltore con la coppola che indica la direzione dei nemici, chino sulla sua terra insanguinata. John Steinbeck, che con Capa aveva dato vita a Un Diario Russo, aveva scritto di lui che "sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato", .. che "sapeva che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un'emozione", ma che lui era "riuscito a fotografare quell'emozione conoscendola da vicino. Poteva mostrare l'orrore di un intero popolo attraverso il viso di un bambino. La sua macchina fotografica coglieva l'emozione e la tratteneva". E noi usciamo da questa mostra invasi, storditi e quasi travolti dalle emozioni. Per riflettere, riflettere e non dimenticare. Ci farà bene.


La mostra, organizzata in occasione dell'Anno Culturale Ungheria-Italia 2013, è curata da Beatrice Lengyer e promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. L'organizzazione è a cura di Zetema Progetto Cultura, il cui ufficio stampa ringraziamo per la concessione delle foto pubblicate.


Articolo Copyright © Simonetta Sandri

Nessun commento:

Posta un commento