Roma,
Museo di Roma, Palazzo Braschi, 3 ottobre 2013-6 gennaio 2014
di Simonetta Sandri
Se
le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei
abbastanza vicino.
Quando
mi sono avvicinata al monumentale Palazzo Braschi, un tardo
pomeriggio d’inizio novembre, di Robert Capa sapevo solo che era
stato, insieme all’indimenticabile Henri Cartier- Bresson, uno dei
fondatori della grande e notoria agenzia Magnum Photos intorno alla
fine degli anni 40, a Parigi. Avrei scoperto solo più tardi che la
data precisa era il 1947 e che, quest'anno, il 2014, ricorreva
l'anniversario dei 50 anni dalla morte di quello che, senza alcun
dubbio, può essere considerato il padre del fotogiornalismo.
Capa era nato in Ungheria, nel 1913, da una famiglia borghese ebraica, con il nome di Endre Ernö Friedmann e, trasferitosi a Parigi, qui aveva assunto lo pseudonimo, con il quale sarebbe divenuto famoso, di un fotografo americano da lui stesso inventato per acquisire credibilità presso i giornali, quello di Robert Capa appunto. Andre', come si faceva inizialmente chiamare, alla francese, e Gerda Phorylle, profuga ebrea tedesca che divenne la sua compagna, inventano Capa, ispirandosi al registra Frank Capra per il cognome, e a Robert Taylor per il nome, il grande attore amante di Greta Garbo in Camille del 1936. E' molto romantico leggere come Gerda girasse per le redazioni delle riviste proponendo le foto di questo genio americano inventato e di come a poco a poco il successo fosse arrivato, un impegno da parte di quel grande amore che si sarebbe perso intrappolato sotto un carro armato repubblicano nella Madrid del luglio del 1937. Capa, che voleva sposare quella donna meravigliosa e profondamente innamorata, non si sarebbe più ripreso da questa terribile disgrazia. E avrebbe iniziato a vagare, così immaginiamo, con la sua macchina fotografica, in scenari lontani, complessi e di sofferenza. Un po' perso per la devastante tristezza, ma sicuro della sua volontà di testimoniare il mondo in guerra.
Capa era nato in Ungheria, nel 1913, da una famiglia borghese ebraica, con il nome di Endre Ernö Friedmann e, trasferitosi a Parigi, qui aveva assunto lo pseudonimo, con il quale sarebbe divenuto famoso, di un fotografo americano da lui stesso inventato per acquisire credibilità presso i giornali, quello di Robert Capa appunto. Andre', come si faceva inizialmente chiamare, alla francese, e Gerda Phorylle, profuga ebrea tedesca che divenne la sua compagna, inventano Capa, ispirandosi al registra Frank Capra per il cognome, e a Robert Taylor per il nome, il grande attore amante di Greta Garbo in Camille del 1936. E' molto romantico leggere come Gerda girasse per le redazioni delle riviste proponendo le foto di questo genio americano inventato e di come a poco a poco il successo fosse arrivato, un impegno da parte di quel grande amore che si sarebbe perso intrappolato sotto un carro armato repubblicano nella Madrid del luglio del 1937. Capa, che voleva sposare quella donna meravigliosa e profondamente innamorata, non si sarebbe più ripreso da questa terribile disgrazia. E avrebbe iniziato a vagare, così immaginiamo, con la sua macchina fotografica, in scenari lontani, complessi e di sofferenza. Un po' perso per la devastante tristezza, ma sicuro della sua volontà di testimoniare il mondo in guerra.
In
quasi quarant'anni di vita, questo incredibile artista della
fotografia e della storia avrebbe scattato oltre settantamila foto in
bianco e nero, percorrendo e attraversando in prima persona, a suo
rischio e pericolo (morirà, infatti, in Indocina, l'attuale
Vietnam), ben cinque conflitti mondiali: la guerra civile spagnola
(1936-1939), la seconda guerra sino-giapponese (che segue nel 1938),
la seconda guerra mondiale vista dallo scenario europeo (1941-1945),
la guerra arabo-israeliana (1948) e la prima guerra d'Indocina
(1954). Guerra nelle guerre.
A
Roma siamo rimasti colpiti dalla forza delle immagini, incollati agli
sguardi delle persone ritratte, toccati dall'empatia con esse,
sfiorati dal coraggio, dall'integrità di un grande artista partecipe
di tante sofferenze e scene di esistenza vera e (con)vissuta. Questo
fotografo capiva profondamente la vita, la percorreva, la trasudava,
la scolpiva, la disegnava, la immortalava nei suoi attimi più duri e
sofferenti, la spogliava, la smembrava. Le immagini scorrono, a Roma.
Ogni
episodio immortalato si presenta nella sua unicità, ogni abbraccio
nella sua disperazione, ogni mano aperta nella sua speranza, ogni
volto nella sua voglia di sopravvivere. Rimaniamo colpiti nel vedere
il ritratto di noi stessi e della nostra storia. Questa mostra
andrebbe visitata da ogni italiano, percorsa con attenzione
soprattutto da quei giovani che non conoscono la storia di un paese
uscito da una guerra così devastante. Rimane incredibile, ai nostri
occhi, osservare in che stato eravamo solamente 60 anni fa, una
distanza che è un nulla nella storia di una nazione, vedere nelle
foto quello che i nostri nonni e i nostri genitori allora bambini ci
avevano raccontato o almeno avevano cercato di raccontare nei
pomeriggi invernali dove, annoiati, sbadigliavamo e cambiavamo canale
della memoria.
Tutti
dovremmo passare da qui, da questa mostra particolare, per ricordare,
per capire da dove veniamo, con che cosa abbiamo combattuto, come
eravamo distrutti e come da questa distruzione i nostri genitori
siano rinati con le loro sole forze.
Noi
che oggi viviamo spesso nella superficialità e nel benessere dovremo
tramandare quei sacrifici e quella memoria, vedendone e toccandone i
fatti. Cammino per le sale spaziose e ben illuminate e nelle immagini
rivedo i volti di alcune fotografie di nonna, dal nome di speranza,
Vita, la mia nonna dai capelli grigi attraversati solo da una scia
ondulata bianca candida.
Attraverso,
sola con i miei pensieri, Troina, Monreale, Napoli, Anzio, Cassino.
Vedo agricoltori dal volto segnato, campi smembrati e divelti,
bambini arruffati, truppe zoppicanti, macerie fumanti, soldati
stanchi, fagotti bianchi. Passiamo dalla disperazione all'esultanza.
In
alcune immagini - penso, in particolare, alla foto di una coppia,
che, dopo la liberazione, passeggia a braccetto per le strade di
Cefalù - rivedo le vecchie foto di famiglia, mi ricordo vagamente di
zie, prozie e bisnonne. Salto nella storia, nella mia storia
familiare e personale, nel mio passato che ritrovo a sorridermi per
essere stato risvegliato, riscoperto e rispolverato.
Sono
testimone da lontano, ora, mentre Capa lo era sul campo, allora, ma
questo immenso personaggio che ha raccontato la faccia terribile
della guerra ha anche il merito di averle dato sembianze umane, di
farci oggi riflettere, "leggermente fuori fuoco", al vero
volto dei conflitti, di scorgere anche la tenerezza nelle rughe di un
vecchio agricoltore con la coppola che indica la direzione dei
nemici, chino sulla sua terra insanguinata. John Steinbeck, che con
Capa aveva dato vita a Un
Diario Russo,
aveva scritto di lui che "sapeva
che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato",
.. che "sapeva
che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto
un'emozione", ma che lui era "riuscito a fotografare
quell'emozione conoscendola da vicino. Poteva mostrare l'orrore di un
intero popolo attraverso il viso di un bambino. La sua macchina
fotografica coglieva l'emozione e la tratteneva".
E noi usciamo da questa mostra invasi, storditi e quasi travolti
dalle emozioni. Per riflettere, riflettere e non dimenticare. Ci farà
bene.
La
mostra, organizzata in occasione dell'Anno Culturale Ungheria-Italia
2013, è curata da Beatrice Lengyer e promossa da Roma Capitale,
Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica -
Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. L'organizzazione è a
cura di Zetema Progetto Cultura, il cui ufficio stampa ringraziamo
per la concessione delle foto pubblicate.
Articolo
Copyright © Simonetta Sandri
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