Milan
Kundera,
La festa
dell'insignificanza,
Adelphi
p128
di
Eleonora Bonoretti
Adelphi,
nella sotto copertina:
«Gettare
una luce sui problemi più seri e al tempo stesso non pronunciare una
sola frase
seria, subire il fascino della realtà del mondo
contemporaneo e al tempo stesso
evitare ogni realismo, ecco La
festa dell'insignificanza. Chi
conosce i libri di
Kundera sa che il desiderio di incorporare in
un romanzo una goccia di "non serietà"
non è cosa
nuova per lui. Nell'Immortalità
Goethe e Hemingway se ne vanno a
spasso per diversi capitoli, chiacchierano, si divertono. Nella
Lentezza,
Vera,
la moglie dell'autore, lo mette in guardia: "Mi hai
detto tante volte che un giorno avresti
scritto un romanzo in cui
non ci sarebbe stata una sola parola seria... Ti avverto però: sta'
attento".
Ora, anziché fare attenzione, Kundera ha
finalmente realizzato il suo vecchio
sogno estetico – e La
festa dell'insignificanza può
essere considerato una
sintesi di tutta la sua opera. Una strana
sintesi. Uno strano epilogo.
Uno strano riso, ispirato dalla
nostra epoca che è comica perché ha perduto
ogni senso
dell'umorismo. Che dire ancora? Nulla. Leggete!»
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Ho
scoperto per la prima volta Milan Kundera, leggendo L'Immortalità ed
è stato come un colpo di fulmine, un amore letterario intendiamoci,
fatto delle emozioni dell'attesa di iniziare un nuovo racconto, del
piacere di leggere una scrittura intensa, cinica e ironica e della
malinconia che sempre si accompagna a ogni finale.
Ho
acquistato La Festa dell'insignificanza, il giorno stesso in
cui è uscito in libreria, ma la paura che finisse subito mi ha
impedito di leggerlo e così, è rimasto lì per un pò, ad
attendermi, insieme ai tanti libri per i quali mi ripeto "non è
il momento giusto" (sono una di quelle che crede che esista un
"momento", anzi "il momento" per ogni titolo); ma
poi, è bastato un pomeriggio, uno di quelli in cui il tempo sembrava
suggerire soltanto divano, coperta della nonna e caffè americano per
leggerlo tutto, una sorsata e via, finito, qualche ora soltanto per
ritrovarmi già nella nostalgia che accompagna ogni libro che
termina.
Restano,
come sempre accade per ogni incontro con Milan Kundera, tanti
interrogativi, ma il dubbio più sfacciato e diretto è, ma cosa ho
letto? Un romanzo? Un saggio? O una pièce teatrale? Non saprei
rispondere, posso dire che rimane una profonda amarezza, una festa
che finisce troppo presto, un sipario che cala velocemente, come in
uno spettacolo a teatro e lascia lo spettatore a bocca aperta, con le
mani che applaudono e gli occhi che cercano un bis. Lo scrittore si
congeda, con un'ultima grande risata, ricordandoci una citazione di
Hegel "Solo dall'alto dell'infinito buonumore, puoi osservare
sotto di te l'eterna stupidità degli uomini e riderne".
Il
palcoscenico di Milan Kundera è la Parigi moderna dei giorni nostri,
i personaggi diventano le sue marionette, attori e comparse, ciò che
noi tutti siamo. Il lettore entra ed esce dalla trama, in un
alternanza surreale, tra digressioni storico-filosofiche e le vicende
dei protagonisti, un andamento discontinuo, personaggi stravaganti,
inattuali, semiseri, si susseguono, spostando l’attenzione dalle
loro pecurialità individuali alle vicende che li uniscono. Dal
singolo alla collettività, dal particolare alla Storia, una storia
che non si sostituisce al romanzo ma che rimane sempre un eco,
attraverso i Ricordi di Chruščëv e l’aneddoto delle ventiquattro
pernici di Stalin. Leggerezza e pesantezza, anima e corpo, memoria e
oblio, genitori e figli, dualismi sempre cari a Milan Kundera che
ritornano in ogni racconto e così anche la Festa dell’insignificanza
non viene risparmiata, passando dalle futili esperienze umane di
patetici personaggi un po’ vanesi e dadaisti all’involontaria e
feroce comicità del dittatore Stalin, ritratto in una parodia sulle
origini di Kaliningrad, per dimostrare ancora una volta quanto l’uomo
sia ben piccola cosa e di quanto tutto si perda in generazioni che
non hanno memoria.
La
Festa dell’insignificanza si apre con una riflessione sull’ombelico
femminile, sfacciatamente esibito dalle ragazze a passeggio per le
strade, una sfilata di ombelichi tutti uguali, il simbolo della
ripetizione e della negazione di ogni individualità, condanna a cui
tutti sembriamo destinati. L’erotismo è annientato da questo
legame con la duplicazione, la sensualità finisce, l’umorismo
emerge cinico su questa epoca, ma cosa resta? Resta l’insignificanza,
la beffa estrema di uno scrittore rassegnato di fronte a un mondo che
non può cambiare, ma scivolare verso l’oblio, è una resa forte:
“l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla”. La chiave di
tutto è il buonumore, riflessioni intense, angosce, drammi, sono
affrontati con ironia, leggerezza e divertissement, nella rete dei
rapporti umani, l’insignificanza non è il vuoto di significato, ma
come lui stesso ci ricorda : “L’insignificanza, amico mio, è
l’essenza della vita. E’ con noi ovunque e sempre. E’ presente
anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie
cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso coraggio per
riconoscerla in situazioni tanto drammatiche e per chiamarla con il
suo nome”.
Copyright
© by Eleonora Bonoretti
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