mercoledì 9 ottobre 2013

Il filo rosso n. 3


rubrica di cinema corto
a cura di Simonetta Sandri e William Molducci
Ci vuole un fisico
di Alessandro Tamburini

Gli incontri al buio possono sempre avere dei risvolti inaspettati, come nel caso dei due protagonisti di Ci vuole un fisico del regista faentino Alessandro Tamburini.
Nello stesso ristorante un ragazzo e una ragazza, dall'aspetto normale, ma entrambi convinti di essere poco avvenenti se non addirittura brutti, aspettano i rispettivi partner, che tardano ad arrivare e non rispondono alle pressanti telefonate. Dopo numerosi tentativi di contattarli si convincono dell'inutilità dell'attesa e si consolano cenando in solitudine.
I due si incontrano all'uscita del locale, dopo essersi scambiati qualche occhiata durante la cena ed avere compreso la situazione l'uno dell'altra. Lei gli propone di accompagnarlo a casa e questo è il pretesto narrativo per iniziare un viaggio nella Roma notturna, alla ricerca di qualcosa che dia loro serenità. Durante la corsa in scooter inizieranno a conoscersi parlando di loro e inizialmente dei loro mancati partner, ma soprattutto quello che emergerà sarà la loro insicurezza ed inadeguatezza, al limite dell'ossessione. Tutti questi problemi nascono da una non accettazione esagerata del loro fisico e della voglia di trattarsi bene, soprattutto nei confronti del cibo.
Una frase di lei è particolarmente efficace nel descrivere questo stato d'animo: “... secondo me essere brutti è come fare una gara, metti che stai correndo una maratona, tu corri in mezzo alla gente e ogni tre chilometri arriva una mano gigante che ti riporta indietro di un chilometro... e pure se sei in vantaggio sugli altri devi correre sempre più forte così, sempre per colpa di quella mano gigante, però pensa che soddisfazione se vinci la gara...”. Il film si regge sulla buona interpretazione dei due attori (il ragazzo è interpretato dallo stesso Tamburini), un particolare plauso lo riserviamo ad Anna Ferraioli Ravel (diplomata al centro sperimentale di cinematografia), la cui verve recitativa dona spessore e simpatia al personaggio della ragazza complessata. La notte passata insieme li rende consapevoli delle loro potenzialità come esseri umani e sembra iniziare una storia d'amore, sicuramente le paranoie stanno per abbandonarli. Alessandro Tamburini è nato a Faenza nel 1984, al suo attivo ha numerose produzioni tra cui Il viaggio, le cui riprese sono state effettuate in Romagna, nell'arco di due anni. Tamburini si è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia a cui fu ammesso grazie al medio metraggio intitolato La trappola, vincitore di vari concorsi nella capitale. Segnaliamo anche il documentario Mai senza – La sessualità alla Terza Età, realizzato assieme a Ciro Zecca, con Paolo Villaggio, Lino Banfi, Sandra Milo , Tinto Brass, Carlo Monni, Milly D’Abbraccio e Riccardo Schicchi.
Ci vuole un fisico ha vinto numerosi premi, molti dei quali assegnati alla protagonista femminile. (WM)

Kiruna-Kigali
di Goran Kapetanović

Diretto da un regista classe 1974, nato a Sarajevo ma svedese d’adozione fin al 1992, Kiruna-Kigali è entrato nella lista dei cortometraggi selezionati agli Oscar nel 2012, nell’omonima categoria, ed è stato presentato al Sarajevo Film Festival dell’agosto 2013. Ambientato fra Svezia e Ruanda, il film percorre la dolorosa esperienza del parto di due donne sole, single come si direbbe oggi, per scelta o per forza e necessità. Esperienza dolorosa nel senso fisico, ovviamente. Parliamo di Eva, a Kiruna, la città più settentrionale della Svezia, a 100 km dal confine con la Norvegia e la Finlandia, e dell’adolescente Malika, in Ruanda, in un villaggio, non lontano dalla capitale Kigali, che pare abitato solo da donne e ragazzini, perché decimato dalla guerra civile e da padri in essa perduti. Qui mancano uomini e con essi braccia, forza, mezzi per raggiungere un ospedale. Il fratello di Malika, Vergile s'ingegna con i bambini rimasti che, messi da parte astio e odio di piccole bande rivali, caricano una barella artigianale sulle loro giovani spalle e corrono verso la struttura sanitaria più vicina. Qui la stessa Eva, giovane medico volontario che all’epoca si trovava in quel villaggio sperduto, accompagna lo sforzo sovrumano di Malika, sofferente perché il nascituro si trova nella posizione sbagliata per poter vedere la luce. Un amuleto è al collo della ragazzina, tutta la forza è concentrata su quel cerchio magico. La luce sarà, nella notte ruandese, una paffutella bambina la vedrà fra le braccia della madre commossa. Dall’altra parte del mondo, a migliaia di chilometri di distanza, Eva sarà sola, nella moderna ed attrezzata Svezia, dove nessuno risponde alle sue disperate richieste d’aiuto. I corridoi del suo palazzo signorile sono vuoti, un po’ lugubri, nessuno apre a nessuna porta. Persa in mezzo alla neve, nel tentativo di arrivare all’ospedale, le urla strazianti di un dolore solitario echeggiano dalla sua macchina. Allo specchietto retrovisore è appeso, tuttavia, l’amuleto circolare di Malika. Eva, il medico, è sola, più sola di quanto si possa essere in Ruanda. Società diverse, diverso sentimento, forse diverso senso della solidarietà e del senso di appartenenza ad una piccola comunità. Un urlo, due urla, molte urla nella neve, paura e dolore ma poi un vagito. Un tenerissimo vagito, una vita che scalpita e lotta per trionfare. (SS)

Curfew
di Shawn Christensen

Curfew (coprifuoco) del regista, sceneggiatore e musicista Shawn Christensen è il cortometraggio che, tra i tanti premi ricevuti, ha vinto quest'anno il prestigioso Oscar Hollywoodiano riservato ai cortometraggi.
Il film racconta la storia di un uomo depresso e del suo incontro con Sophia, la nipotina di nove anni, interpretata dalla piccola e bravissima Fatima Ptacek.
Ritchie, il protagonista del film interpretato dallo stesso Christensen, nel momento più drammatico della sua vita, dopo essersi tagliato le vene di un polso, viene interrotto dallo squillare del telefono. Si tratta di sua sorella che non vede da molto tempo e che, pur ritenendolo un irresponsabile, gli chiede se può occuparsi per qualche ora della nipotina Sophia. I rapporti tra i due non sono buoni, ma le circostanze costringono la donna ad affidare la figlia al fratello, per fare in modo di affrontare una situazione difficile. Ritchie decide quindi di rinviare il proprio suicidio e si medica con un po' di garza, in modo da tamponare l'uscita del sangue e coprire il taglio che si era procurato al polso. Quello che il ragazzo ancora non sa è che quella bambina si dimostrerà molto più matura ed intelligente di lui e dopo qualche momento iniziale di diffidenza reciproca, riuscirà a dargli nuovo interesse per la vita. Il regista ha tratto l'ispirazione, per realizzare questo film, da una conversazione avuta con una ragazzina di nove anni, occasione in cui si è reso conto che per molti versi lei era molto più intelligente di lui. I bambini a quell’età assorbono così tante informazioni e lo fanno con una tale energia, che possono esser fonte di grande ispirazione. Gli adulti, invece, di qualsiasi parte del mondo siano, con il passare degli anni si fanno più disincantati ed indifferenti: Queste affermazioni riprendono in qualche modo concetti espressi anche da Pier Paolo Pasolini.
Al regista piaceva l’idea di esplorare quelle due persone così diverse: una bambina piena di vita ed un adulto che invece ne era completamente svuotato, ma che dentro di lui, da qualche parte, aveva ancora sopito un bambino interiore. Da segnalare le doti recitative della giovanissima Ptacek, che si manifesta in tutto il suo potenziale, con un'interpretazione espressiva ed emozionale. (WM)

Electric Indigo
di Jean-Julien Collette

Uno dei sette colori dell’arcobaleno, l’indaco, tinta fra blu e violetto, o, più precisamente, una delle sue sfumature, un blu-viola elettrico. Nella simbologia dei colori, esso significa fiducia, verità, stabilità. O meglio viaggio verso questi valori, la loro ricerca. Nessun nome poteva quindi essere più adatto alla giovane protagonista, Indigo, che, attraverso un percorso difficile ed inusuale cercherà di arrivare a questa stabilità tanto agognata e ricercata. Cresciuta da una coppia eterosessuale, unitasi in un matrimonio formale “non carnale”, costituita dallo spagnolo Ruben e dall’americano Tony, Indigo non ha mai conosciuto la madre, Jennifer, che per una busta gonfia di euro si era prestata a farla nascere per cederla alla coppia di amici desiderosi di crescere un bambino senza matrimoni con donne, considerate un’inutile complicazione. Il giorno del dodicesimo compleanno della protagonista, la madre naturale appare sulla scena, svelando la sua storia. Siamo di fronte ad un incredibile matrimonio d’amicizia, con scene che scorrono unitamente a dialoghi misti francese-inglese, un’unione inizialmente contraddistinta da un intenso legame fraterno ma poi sfociato nella tragedia. Rifiutatisi, infatti, di rendere la figlia adottiva, Ruben e John vengono uccisi a sangue freddo dal padre di Jennifer, avvolti da un candido accappatoio macchiato dal rosso acceso della morte. La ventenne “liberata” dagli adulti dai quali si era trovata sempre a dipendere come tralicci dell’alta tensione, si reca regolarmente sul ponte dal quale Jennifer era scomparsa durante la fuga in macchina che aveva trascinato via Indigo (si deduce che la stessa Indigo spinga la madre nel vuoto…). In quel luogo doloroso si presenta ad innaffiare le piante deposte in memoria della sua “famiglia” non tradizionale, con la persona forte che finalmente le ha dato serenità e stabilità, una ragazza. Una ricerca di un’identità ignota che si rivela solo ora. Un film alla frontiera della commedia e del dramma, che tratta di spinosi temi sociali, della libertà che volte spinge all’estremo. Selezionato al Festival Internazionale dei Film in lingua Francese di Namur, a quello di Trouville ed al Bruxelles Short Film Festival del 2013, il film è da vedere con attenzione e riflessione. (SS)

Copyright © by William Molducci and Simonetta Sandri

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