rubrica di cinema
corto
a cura di Simonetta
Sandri e William Molducci
Ci vuole un fisico
di Alessandro
Tamburini
Gli incontri al buio
possono sempre avere dei risvolti inaspettati, come nel caso dei due
protagonisti di Ci vuole un
fisico del regista faentino
Alessandro Tamburini.
Nello stesso ristorante
un ragazzo e una ragazza, dall'aspetto normale, ma entrambi convinti
di essere poco avvenenti se non addirittura brutti, aspettano i
rispettivi partner, che tardano ad arrivare e non rispondono alle
pressanti telefonate. Dopo numerosi tentativi di contattarli si
convincono dell'inutilità dell'attesa e si consolano cenando in
solitudine.
I due si incontrano
all'uscita del locale, dopo essersi scambiati qualche occhiata
durante la cena ed avere compreso la situazione l'uno dell'altra. Lei
gli propone di accompagnarlo a casa e questo è il pretesto narrativo
per iniziare un viaggio nella Roma notturna, alla ricerca di qualcosa
che dia loro serenità. Durante la corsa in scooter inizieranno a
conoscersi parlando di loro e inizialmente dei loro mancati partner,
ma soprattutto quello che emergerà sarà la loro insicurezza ed
inadeguatezza, al limite dell'ossessione. Tutti questi problemi
nascono da una non accettazione esagerata del loro fisico e della
voglia di trattarsi bene, soprattutto nei confronti del cibo.
Una frase di lei è
particolarmente efficace nel descrivere questo stato d'animo: “...
secondo me essere brutti è come fare una gara, metti che stai
correndo una maratona, tu corri in mezzo alla gente e ogni tre
chilometri arriva una mano gigante che ti riporta indietro di un
chilometro... e pure se sei in vantaggio sugli altri devi correre
sempre più forte così, sempre per colpa di quella mano gigante,
però pensa che soddisfazione se vinci la gara...”.
Il film si regge sulla buona interpretazione dei due attori (il
ragazzo è interpretato dallo stesso Tamburini), un particolare
plauso lo riserviamo ad Anna Ferraioli Ravel (diplomata al centro
sperimentale di cinematografia), la cui verve recitativa dona
spessore e simpatia al personaggio della ragazza complessata. La
notte passata insieme li rende consapevoli delle loro potenzialità
come esseri umani e sembra iniziare una storia d'amore, sicuramente
le paranoie stanno per abbandonarli. Alessandro Tamburini è nato a
Faenza nel 1984, al suo attivo ha numerose produzioni tra cui Il
viaggio, le cui riprese
sono state effettuate in Romagna, nell'arco di due anni. Tamburini si
è diplomato al Centro sperimentale di cinematografia a cui fu
ammesso grazie al medio metraggio intitolato La
trappola, vincitore di vari
concorsi nella capitale. Segnaliamo anche il documentario Mai
senza – La sessualità alla Terza Età,
realizzato assieme a Ciro Zecca, con Paolo Villaggio, Lino Banfi,
Sandra Milo , Tinto Brass, Carlo Monni, Milly D’Abbraccio e
Riccardo Schicchi.
Ci
vuole un fisico
ha vinto numerosi premi, molti dei quali assegnati alla protagonista
femminile. (WM)
Kiruna-Kigali
di
Goran Kapetanović
Diretto
da un regista classe 1974, nato a Sarajevo ma svedese d’adozione
fin al 1992, Kiruna-Kigali
è entrato nella lista dei cortometraggi selezionati agli Oscar
nel 2012, nell’omonima categoria, ed è stato presentato al
Sarajevo Film Festival dell’agosto 2013. Ambientato fra Svezia e
Ruanda, il film percorre la dolorosa esperienza del parto di due
donne sole, single come si direbbe oggi, per scelta o per forza e
necessità. Esperienza dolorosa nel senso fisico, ovviamente.
Parliamo di Eva, a Kiruna, la città più settentrionale della
Svezia, a 100 km dal confine con la Norvegia e la Finlandia, e
dell’adolescente Malika, in Ruanda, in un villaggio, non lontano
dalla capitale Kigali, che pare abitato solo da donne e ragazzini,
perché decimato dalla guerra civile e da padri in essa perduti. Qui
mancano uomini e con essi braccia, forza, mezzi per raggiungere un
ospedale. Il fratello di Malika, Vergile s'ingegna con i bambini
rimasti che, messi da parte astio e odio di piccole bande rivali,
caricano una barella artigianale sulle loro giovani spalle e corrono
verso la struttura sanitaria più vicina. Qui la stessa Eva, giovane
medico volontario che all’epoca si trovava in quel villaggio
sperduto, accompagna lo sforzo sovrumano di Malika, sofferente perché
il nascituro si trova nella posizione sbagliata per poter vedere la
luce. Un amuleto è al collo della ragazzina, tutta la forza è
concentrata su quel cerchio magico. La luce sarà, nella notte
ruandese, una paffutella bambina la vedrà fra le braccia della madre
commossa. Dall’altra parte del mondo, a migliaia di chilometri di
distanza, Eva sarà sola, nella moderna ed attrezzata Svezia, dove
nessuno risponde alle sue disperate richieste d’aiuto. I corridoi
del suo palazzo signorile sono vuoti, un po’ lugubri, nessuno apre
a nessuna porta. Persa in mezzo alla neve, nel tentativo di arrivare
all’ospedale, le urla strazianti di un dolore solitario echeggiano
dalla sua macchina. Allo specchietto retrovisore è appeso, tuttavia,
l’amuleto circolare di Malika. Eva, il medico, è sola, più sola
di quanto si possa essere in Ruanda. Società diverse, diverso
sentimento, forse diverso senso della solidarietà e del senso di
appartenenza ad una piccola comunità. Un urlo, due urla, molte urla
nella neve, paura e dolore ma poi un vagito. Un tenerissimo vagito,
una vita che scalpita e lotta per trionfare. (SS)
Curfew
di
Shawn Christensen
Curfew
(coprifuoco) del regista, sceneggiatore e musicista Shawn Christensen
è il cortometraggio che, tra i tanti premi ricevuti, ha vinto
quest'anno il prestigioso Oscar Hollywoodiano riservato ai
cortometraggi.
Il
film racconta la storia di un uomo depresso e del suo incontro con
Sophia, la nipotina di nove anni, interpretata dalla piccola e
bravissima Fatima Ptacek.
Ritchie,
il protagonista del film interpretato dallo stesso Christensen, nel
momento più drammatico della sua vita, dopo essersi tagliato le vene
di un polso, viene interrotto dallo squillare del telefono. Si tratta
di sua sorella che non vede da molto tempo e che, pur ritenendolo un
irresponsabile, gli chiede se può occuparsi per qualche ora della
nipotina Sophia. I rapporti tra i due non sono buoni, ma le
circostanze costringono la donna ad affidare la figlia al fratello,
per fare in modo di affrontare una situazione difficile. Ritchie
decide quindi di rinviare il proprio suicidio e si medica con un po'
di garza, in modo da tamponare l'uscita del sangue e coprire il
taglio che si era procurato al polso. Quello che il ragazzo ancora
non sa è che quella bambina si dimostrerà molto più matura ed
intelligente di lui e dopo qualche momento iniziale di diffidenza
reciproca, riuscirà a dargli nuovo interesse per la vita. Il regista
ha tratto l'ispirazione, per realizzare questo film, da una
conversazione avuta con una ragazzina di nove anni, occasione in cui
si è reso conto che per molti versi lei era molto più intelligente
di lui. I bambini a quell’età assorbono così tante informazioni e
lo fanno con una tale energia, che possono esser fonte di grande
ispirazione. Gli adulti, invece, di qualsiasi parte del mondo siano,
con il passare degli anni si fanno più disincantati ed indifferenti:
Queste affermazioni riprendono in qualche modo concetti espressi
anche da Pier Paolo Pasolini.
Al
regista piaceva l’idea di esplorare quelle due persone così
diverse: una bambina piena di vita ed un adulto che invece ne era
completamente svuotato, ma che dentro di lui, da qualche parte, aveva
ancora sopito un bambino interiore. Da
segnalare le doti recitative della giovanissima Ptacek, che si
manifesta in tutto il suo potenziale, con un'interpretazione
espressiva ed emozionale. (WM)
Electric
Indigo
di
Jean-Julien Collette
Uno
dei sette colori dell’arcobaleno, l’indaco, tinta fra blu e
violetto, o, più precisamente, una delle sue sfumature, un blu-viola
elettrico. Nella simbologia dei colori, esso significa fiducia,
verità, stabilità. O meglio viaggio verso questi valori, la loro
ricerca. Nessun nome poteva quindi essere più adatto alla giovane
protagonista, Indigo,
che, attraverso un percorso difficile ed inusuale cercherà di
arrivare a questa stabilità tanto agognata e ricercata. Cresciuta da
una coppia eterosessuale, unitasi in un matrimonio formale “non
carnale”, costituita dallo spagnolo Ruben e dall’americano Tony,
Indigo non ha mai conosciuto la madre, Jennifer, che per una busta
gonfia di euro si era prestata a farla nascere per cederla alla
coppia di amici desiderosi di crescere un bambino senza matrimoni con
donne, considerate un’inutile complicazione. Il giorno del
dodicesimo compleanno della protagonista, la madre naturale appare
sulla scena, svelando la sua storia. Siamo di fronte ad un
incredibile matrimonio d’amicizia, con scene che scorrono
unitamente a dialoghi misti francese-inglese, un’unione
inizialmente contraddistinta da un intenso legame fraterno ma poi
sfociato nella tragedia. Rifiutatisi, infatti, di rendere la figlia
adottiva, Ruben e John vengono uccisi a sangue freddo dal padre di
Jennifer, avvolti da un candido accappatoio macchiato dal rosso
acceso della morte. La ventenne “liberata” dagli adulti dai quali
si era trovata sempre a dipendere come tralicci dell’alta tensione,
si reca regolarmente sul ponte dal quale Jennifer era scomparsa
durante la fuga in macchina che aveva trascinato via Indigo (si
deduce che la stessa Indigo spinga la madre nel vuoto…). In quel
luogo doloroso si presenta ad innaffiare le piante deposte in memoria
della sua “famiglia” non tradizionale, con la persona forte che
finalmente le ha dato serenità e stabilità, una ragazza. Una
ricerca di un’identità ignota che si rivela solo ora. Un film alla
frontiera della commedia e del dramma, che tratta di spinosi temi
sociali, della libertà che volte spinge all’estremo. Selezionato
al Festival Internazionale dei Film in lingua Francese di Namur, a
quello di Trouville ed al Bruxelles Short Film Festival del 2013, il
film è da vedere con attenzione e riflessione. (SS)
Copyright © by William Molducci and Simonetta Sandri
Copyright © by William Molducci and Simonetta Sandri
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