Magazzino 18 rappresentato a Pola in Istria
Di
Daria Deghenghi
Chi
lo ha contestato (generalmente a priori) non ha capito niente di ciò
che volevasi dimostrare. “Magazzino 18” non è l’invocato
processo a Tito o, peggio, a una nazione, e non è l’indulto per le
foibe. Non è rivendicazione del territorio, non è irriverenza, non
è odio e soprattutto non è incitamento all’odio. “Magazzino 18”
è solo ed è unicamente la condanna del terrore dell’uomo
sull’uomo. Per capirci: di qualsiasi terrore e di qualsiasi uomo
che infligga terrore al proprio simile. Ma soprattutto è redenzione
delle vittime. Per capirci un’altra volta, se ce ne fosse ancora il
bisogno: di qualsiasi vittima innocente, di oggi, di ieri e di
sempre.
Chiusa
parentesi sull’umano bisogno di cercare il pelo nell’uovo e il
nemico dietro l’angolo, prendiamo il lavoro di Simone Cristicchi
per quello che voleva essere ed è di fatto: una splendida
narrazione, epica e lirica al contempo, dell’esodo giuliano-dalmata
con tutti gli antefatti e le conseguenze; un magnifico allestimento
teatrale, un buono strumento didattico per chi ancora fosse digiuno
di storia e geografia patria e un eccellente contributo alla corrente
riconciliatoria che si va affermando malgrado tutto di qua e di là
dal confine.
Confine
che fu il casus belli, la fonte di tutte le sciagure. La storia
(Bernas, Cristicchi) è veloce, incalzante, incisiva, commovente; la
regia (Antonio Calenda) è lineare e pulita, costruita ad innesto di
storie particolari nella trama universale, rafforzate da video,
fotografie e brani musicali toccanti; la recitazione ineccepibile.
Cristicchi è in scena un’ora e tre quarti senza prendere fiato. È
uno e trino nei personaggi di Persichetti, dello Spirito e della
Vittima (a turni, la vittima del fascismo, la vittima di
un’amministrazione angloamericana indifferente, la vittima
dell’esodo e dell’espropriazione dei beni, la vittima
dell’ostilità dei connazionali in patria, la vittima del
revanscismo e delle foibe, la vittima dell’illusione e della
disillusione nel socialismo). Il pretesto della narrazione è uno
qualunque. L’archivista Persichetti è chiamato dal Ministero degli
Interni a fare l’inventario, per poi farlo sparire, delle
masserizie accatastate da decenni in un magazzino del porto di
Trieste. È nostro amico dal momento in cui apre bocca perché ci
rappresenta. Rappresenta chi ignora, chi è pauroso, chi preferirebbe
non averci mai messo piede in quella palude di morti e di memoria
seppelliti nel silenzio più assoluto, e chi tuttavia vuole
sapere e non vuole più tacere di fronte a tanta ingiustizia.
Persichetti
non conosce, ma d’altronde è scontato: è giovane ed è romano,
non ha parenti esuli, in Croazia ci andrà solo per fare il bagno,
non ha mai sentito parlare di “esodo” (tant’è che ci mette
l’accento sulla prima “o”) né conosce l’aggettivo
“giuliano-dalmata” (e infatti lo scambia per un nome proprio di
persona: il tale Giuliano Dalmata). È spassoso come Alberto Sordi, è
mite, buono ed è sincero. Sguardo ebete per timore, occhi fuori
dalle orbite, capelli alla scienziato pazzo, con Persichetti
Cristicchi ha dato il meglio di sé e ha reso onore alla lunga
tradizione comico-satirica italiana. Ma la satira è solo un
ornamento. La storia è ben altra, ed è drammatica da non poter
trattenere le lacrime. A raccontarla sarà lo Spirito delle
masserizie (sempre Cristicchi, non meno convincente di prima), la
voce narrante che a momenti si fa un freddo documentarista, a momenti
giudice universale e a tratti anche sacerdote, per recitare
l'ennesimo suffragio alle vittime.
I
fatti sono noti ai giuliani ma vanno insegnati a chi ancora non
conosce. Serve allo scopo la breve ricostruzione storica e
geopolitica per disegnare l’Istria dal 1914 in qua: dissoluzione
della monarchia austroungarica, fascismo, occupazione, guerra,
armistizio, truppe titine a Trieste, amministrazione anglo-americana
a Pola, Trattato di Pace, Vergarolla, foibe, esodo, il mea culpa di
Đilas, il controesodo dei monfalconesi, l'Isola calva. Ma il quadro
storico sarebbe piuttosto arido se Cristicchi non ci avesse
incastonato la sciagura degli individui, le vittime che "muoiono
ancora oggi su un altro campo di battaglia: quello dei numeri".
Poche troveranno posto sulla scena di Magazzino 18, ma sono
emblematiche: quella che è stata stuprata 17 volte in una notte e
gettata in foiba, quello che ci finì dentro fucilato e quello che
invece lo seguì da vivo solo per subire una morte ancora più
atroce, quello che morì e quello che sopravvisse alla strage di
Vergarolla solo per seppellirne la famiglia intera, quello che
temette per la propria vita e partì esule, quello che fu costretto a
lottare contro i pregiudizi di un'Italia matrigna, quella che morì
assiderata in un campo profughi all'età di un anno e quello infine
che s’impiccò perché “senza radici non si può vivere”....
Vittime senza numero e senza nome, tranne uno: il medico chirurgo
Giuseppe Micheletti, che non ha smesso di operare giorno e notte
malgrado avesse perso lui stesso in spiaggia entrambi i figlioletti.
La sciagura degli italiani d’Istria è agghiacciante e “Magazzino
18” ne offre una brillante testimonianza che è, insieme, catarsi e
lezione di vita da “non dimenticare”. Proprio come recita
l’undicesimo comandamento di Cristicchi. Non dimenticare.
Daria
Deghenghi, giornalista, vive a Pola e scrive per il quotidiano
dell'Istria e del Quarnero “La Voce del Popolo”.
Fotografie
gentilmente concesse da Alen Kalebić
Copyright
©
by Daria Deghenghi
1 commento:
articolo veramente bello. Come lo spettacolo.
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